L’ultima porta
Malgrado il velocissimo sviluppo tecnico che segna il mondo occidentale, oggi, da un punto di vista medico, stabilire interculturalmente con certezza quale sia il momento della morte è impossibile. Ci si affida a schemi considerati socialmente accettabili poiché vita e morte sono convenzioni culturali. Potremmo invece intendere che tra i mortali in verità nessuno sia mai nato e che non via sia per nessuno una fine assoluta. Esisterebbe invece una continua mescolanza e separazione di elementi; il nome di “nascita” a questa mescolanza è stato dato dagli uomini. Questa idea la mise per iscritto Empedocle 2500 anni fa in Sicilia.
La cremazione dei corpi ornati di fiori che avviene sulla riva del fiume Bagmati è metafisicamente qualcosa di molto simile a quello di cui parlava Empedocle.
Riconsegnarsi agli elementi naturali è, per l'Induismo, un modo di continuare a vivere. Dissipare il proprio corpo tra il calore delle fiamme e quello dell’affetto dei propri familiari ed amici, fino a farlo diventare così leggero da posarsi sulla pelle del fiume e lasciarlo scivolare lentamente a valle regalando a chi rimane il tempo di immaginare quali incanti si possano incontrare nella prossima vita.
La cremazione nel tempio di Pashupatinath è un rito rigoroso che va eseguito correttamente affinché il defunto possa incarnarsi un’altra volta.
Un rito distante dalle commemorazioni funebri occidentali ma vicino nella struttura umana dei sentimenti. Ciascun uomo ha il proprio pianto, ciascuno soffre in maniera differente, ma un rito permette ai rimasti di superare il distacco. In quasi tutte le culture, non solo contemporanee, si cerca di far in modo che il morto non sia morto. Tanto la reincarnazione quanto la resurrezione sono infatti modi per far sì che il defunto viva ancora e questo vivere permette di acquisire la consapevolezza della sua morte, della sua assenza fisica accanto a chi rimane.
Gli induisti del tempio di Pashupatinath, ritratti negli scatti di Miriana Bonazza, per elaborare il lutto hanno appreso e tramandano a loro volta la fede nella ripetuta incarnazione.
Queste immagini dal fortissimo impatto emotivo sollevano, tra le altre, una questione che mi ha sempre affascinato. Ciascuno di noi ha un tempo, un modo di vivere il passare del tempo; a renderlo così intimo è il fatto che il calendario di ciascuna esistenza sia scandito dal cuore. Molto prima della volta celeste, il cuore partecipa al tempo svelandolo e dando forma alle epoche della gioia e della collera, dell’attesa e della malinconia. Un metronomo della vita così sensibile da aprirsi alle intermittenze dell’inconscio. È evidente però che il cuore non detta un ritmo costante, il suo essere così soggetto all’esistenza non gli permette di cadenzare il tempo come i ritmi solari e lunari. L’uomo, seguendo le sue necessità, ha preferito la scansione regolare del cielo a quella imprevedibile e caotica del cuore. Due elementi tuttavia indissolubili: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Il tempo del vissuto è in mezzo a queste due regolarità.
Quella che la poetica di Miriana Bonazza individua come l’ultima porta è un atto necessario che segna un passaggio ineluttabile, forse ancor più della morte, se essa stessa non è la morte. Nella scansione emotiva del tempo c’è un momento in cui i cuori scandiscono all’unisono il passaggio attraverso l’ultima porta. (Enea Chersicola)
La cremazione dei corpi ornati di fiori che avviene sulla riva del fiume Bagmati è metafisicamente qualcosa di molto simile a quello di cui parlava Empedocle.
Riconsegnarsi agli elementi naturali è, per l'Induismo, un modo di continuare a vivere. Dissipare il proprio corpo tra il calore delle fiamme e quello dell’affetto dei propri familiari ed amici, fino a farlo diventare così leggero da posarsi sulla pelle del fiume e lasciarlo scivolare lentamente a valle regalando a chi rimane il tempo di immaginare quali incanti si possano incontrare nella prossima vita.
La cremazione nel tempio di Pashupatinath è un rito rigoroso che va eseguito correttamente affinché il defunto possa incarnarsi un’altra volta.
Un rito distante dalle commemorazioni funebri occidentali ma vicino nella struttura umana dei sentimenti. Ciascun uomo ha il proprio pianto, ciascuno soffre in maniera differente, ma un rito permette ai rimasti di superare il distacco. In quasi tutte le culture, non solo contemporanee, si cerca di far in modo che il morto non sia morto. Tanto la reincarnazione quanto la resurrezione sono infatti modi per far sì che il defunto viva ancora e questo vivere permette di acquisire la consapevolezza della sua morte, della sua assenza fisica accanto a chi rimane.
Gli induisti del tempio di Pashupatinath, ritratti negli scatti di Miriana Bonazza, per elaborare il lutto hanno appreso e tramandano a loro volta la fede nella ripetuta incarnazione.
Queste immagini dal fortissimo impatto emotivo sollevano, tra le altre, una questione che mi ha sempre affascinato. Ciascuno di noi ha un tempo, un modo di vivere il passare del tempo; a renderlo così intimo è il fatto che il calendario di ciascuna esistenza sia scandito dal cuore. Molto prima della volta celeste, il cuore partecipa al tempo svelandolo e dando forma alle epoche della gioia e della collera, dell’attesa e della malinconia. Un metronomo della vita così sensibile da aprirsi alle intermittenze dell’inconscio. È evidente però che il cuore non detta un ritmo costante, il suo essere così soggetto all’esistenza non gli permette di cadenzare il tempo come i ritmi solari e lunari. L’uomo, seguendo le sue necessità, ha preferito la scansione regolare del cielo a quella imprevedibile e caotica del cuore. Due elementi tuttavia indissolubili: “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”. Il tempo del vissuto è in mezzo a queste due regolarità.
Quella che la poetica di Miriana Bonazza individua come l’ultima porta è un atto necessario che segna un passaggio ineluttabile, forse ancor più della morte, se essa stessa non è la morte. Nella scansione emotiva del tempo c’è un momento in cui i cuori scandiscono all’unisono il passaggio attraverso l’ultima porta. (Enea Chersicola)